1. Sala Dolzani

Visita virtuale, testi e scelta delle immagini, a cura di Susanna Moser.
1.1 – Parti di sarcofago 1.2 – Divinità
1.3 – Pyramidion 1.4 – Papiro funerario
1.5 – Vasi canopi 1.6 – Sarcofago di Suty-nakht
1.7 – Statua di sovrano inginocchiato dietro a una stele 1.8 – Stele funeraria di Amen-em-inet
1.9 – Stele funeraria di Sa-hathor 1.10 – Stele funeraria familiare
1.11 – Usciabti 1.12 – Amuleti
1.13 – Animali 1.14 – Sarcofago di Pa-di-amon
1.15 – Sarcofago di Aset-reshty //

La grande sala posta al pianterreno del Museo è dedicata alla memoria di Claudia Dolzani (Trieste, 1911-1997), docente di Egittologia presso l’Università di Trieste fino al 1981. É anche la prima delle sale dedicate all’esposizione dei reperti provenienti dall’antico Egitto, in particolare di quelli appartenenti all’epoca faraonica, tra i quali spicca per importanza il grande sarcofago in granito rosa del dignitario Suty-nakht (vedi 1.6).

 

Vetrina 1.1

Parti di sarcofago

Dal momento che in Egitto il legname di buona qualità è sempre stato relativamente scarso, per la manifattura dei sarcofagi lignei era necessario sfruttare ogni risorsa disponibile, come ad esempio i tronchi del sicomoro, che devono essere lavorati in forma di tavole ed elementi più piccoli, date le ridotte dimensioni. Tutte le varie parti erano poi fissate le une alle altre per mezzo di pioli, anch’essi in legno, o di incastri. Le maschere e le mani dei sarcofagi si trovano nelle collezioni sia perché tendono a conservarsi meglio sia perché, a differenza delle tavole, era meno facile riutilizzarle per altri scopi.

1.1.1 Tre maschere

Legno stuccato e dipinto
Altezza 24, 28 e 22 cm
A partire dalla XXI dinastia (dal 1070 a.C. in poi)

Questo tipo di maschere, che riproduceva semplicemente i tratti del volto del defunto, aveva la funzione di dare al sarcofago un aspetto umano, per garantire alla mummia la vita eterna.
Scolpite e modellate in legno, erano lavorate a parte e fissate con perni lignei, visibili sul retro. Venivano poi ricoperte di uno strato di stucco bianco su cui sono dipinti gli occhi e la bocca. Delle tre maschere, quella a sinistra ha il volto ovale dai lineamenti fini, e sotto il mento vi è il foro per inserire la barba divina. La maschera centrale ha la pelle di colore rosso e lungo il mento presenta una linea nera, la quale indica che doveva essere presente la barba divina (sebbene il foro nel mento sia assente). La maschera di destra, a differenza delle altre due, non è mai stata stuccata: i particolari degli occhi e delle sopracciglia sono stati dipinti in nero sulla superficie naturale del legno, il che suggerisce una datazione leggermente posteriore a quella delle altre due.

1.1.2 Coppia di mani stese

Legno stuccato e dipinto
Altezza 18 cm
A partire dalla XXI dinastia (dal 1070 a.C. in poi)

Le mani, anch’esse lavorate a parte rispetto al resto del coperchio e fissate con perni (il cui foro è visibile), erano stese nei sarcofagi femminili e normalmente chiuse a pugno in quelli maschili. Come si vede da alcune tracce ancora presenti sulla superficie, erano poi stuccate e dipinte di giallo.

 

Vetrina 1.2

Divinità

 

Le immagini di divinità sono preponderanti nell’antico Egitto. Le piccole immagini in bronzo potevano essere conservate nei piccoli santuari domestici oppure essere dedicate come ex voto. Le sculture di dimensioni maggiori erano invece conservate nei tabernacoli dei templi come statue di culto, o venivano dedicate da fedeli facoltosi ed erette nei cortili dei santuari.

1.2.1 Frammento di statua naofora

Basalto verde scuro
Altezza 19 cm
XXVI dinastia (672-525 a.C.)

Questo tipo di statua prevedeva che il titolare delle iscrizioni fosse ritratto in piedi o in ginocchio, nell’atto di presentare il naos, cioè una piccola cappella contenente una figura di divinità. Questo frammento consiste purtroppo soltanto della parte inferiore della statua, troncata a metà delle gambe e con la gamba sinistra portata in avanti (convenzione che indica l’incedere del personaggio). Della figura dell’uomo rimangono la mano sinistra, una parte delle gambe e parte del pilastrino posteriore di sostegno. La mano sinistra regge il naos con l’immagine del dio Ptah al quale manca una parte della superficie laterale destra. Il dio Ptah è raffigurato secondo la maniera tradizionale: eretto, mummiforme, la barba divina al mento, lo scettro uas tra le mani terminante sull’estremità dei piedi.
Il testo, incompleto, reca una formula d’offerta e il nome del proprietario della statua: il responsabile dei buoi e maestro degli uccellatori Psamtek-seneb.

1.2.2 Bronzetto del dio Ptah

Bronzo
Altezza 14,8 cm
XXVI dinastia (672-525 a.C.)

Il dio creatore di Menfi è usualmente raffigurato mummiforme, avvolto strettamente nel lenzuolo funebre, il cui lembo si nota dietro le spalle. Sul capo la calotta, al mento la barba divina, corta e larga alla base. Con le mani, che spuntano fuori dal lenzuolo, regge il lungo scettro uas.

1.2.3 Bronzetti del dio Nefertum

Bronzo
Altezza 17,9 e 8,5 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Divinità a volte di aspetto infantile, alla quale è stata spesso attribuita come madre la dea leonessa Sekhmet e talora la dea Bastet. Si manifesta nel fiore di loto blu e nel profumo che esso emana. Il carattere più antico del dio, il cui stesso nome è poco chiaro, è sfuggente. Nei bronzi votivi è raffigurato nell’atto di camminare con le braccia lungo i fianchi. Indossa un corto gonnellino, la parrucca tripartita con un ureo sulla fronte e la lunga barba divina. Sul capo ha il suo tipico diadema: un fiore di loto da cui spuntano due alte piume diritte.

1.2.4 Bronzetti di Osiride

Bronzo
Altezza tra 9 e 24 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Il dio è rappresentato sia stante sia seduto in trono, nel qual caso il trono vero e proprio è normalmente mancante ed era forse realizzato in altro materiale. Il corpo è sempre mummiforme, sul capo porta la corona atef (la corona dell’Alto Egitto affiancata da due piume di struzzo, con o senza corna d’ariete alla base) o la corona dell’Alto Egitto, che in quasi tutti gli esemplari presenta dei piccoli fori per il fissaggio delle due piume di struzzo laterali, realizzate a parte. Sulla fronte è presente l’ureo e al mento la barba divina. Nelle mani, come di consueto, il dio tiene lo scettro-heqa e il flagello-nekhekh (le mani possono essere incrociate, accostate alla stessa altezza o una sotto l’altra). Negli esemplari più raffinati e meglio conservati si può notare come talvolta i dettagli della barba, delle piume, dell’ureo e degli scettri siano resi con un tratteggio più o meno fitto.

1.2.5 Statuina in legno di Osiride

Legno ingobbiato e dipinto
Altezza 9,3 cm
Epoca Tolemaico-romana (332-395 d.C.)

Anche questa statuina raffigura il dio Osiride, seduto stavolta su un trono a basso schienale. L’iconografia è quella tipica: il dio mummiforme indossa una corona e tiene in mano, all’altezza del petto, scettro e flagello.

1.2.6 Bronzetti del dio Arpocrate

Bronzo
Altezza tra 6,5 e 23 cm
A partire dall’Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Il dio fanciullo, figlio di Iside e Osiride (il nome infatti in egiziano significa “Horo il bambino”) è ritratto nudo, seduto (o, meglio, semidisteso) oppure nell’atto di camminare. I tratti iconografici che lo contraddistinguono sono la treccia infantile che scende sul lato destro del capo e il braccio destro piegato per portare l’indice alla bocca. Sul capo può non esserci niente, un disco solare, la corona dell’Alto e Basso Egitto oppure il nemes (pezzo di stoffa posato sulla fronte, legato dietro la testa e con due bande che scendevano sulle spalle, liscio o a righe orizzontali) sormontato da una corona con tre piume e corna d’ariete. Normalmente sulla fronte è presente un ureo. Arpocrate è una divinità il cui culto ebbe molta fortuna in Epoca Tolemaico-romana (332 a.C. – 395 d.C.).

1.2.7 Bronzetti di Imhotep

Bronzo
Altezza 8,7 e 6,4 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Si tratta di un personaggio realmente esistito, ma che per le sue doti straordinarie fu in seguito divinizzato: il gran sacerdote di Eliopoli che fu l’architetto della piramide a gradoni di Gioser. In quanto persona dall’enorme sapienza, divenne a partire dal Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) patrono degli scrittori e personificazione della saggezza; venne definito inoltre figlio di Ptah e identificato in epoca Tolemaica (332-30 a.C.) con il dio greco della medicina Asclepio. Come il dio suo padre, sul capo porta la calotta; il volto è normalmente senza barba. Indossa una collana a più giri e una lunga gonna. Di norma è raffigurato seduto, con un rotolo di papiro tra le mani.

1.2.8 Piccola stele con orecchie

Pietra calcarea
Altezza 6 cm
Nuovo Regno (1543-1078 a.C.)

La piccola stele, con parte superiore arcuata, presenta in lieve sottosquadro un campo in cui è realizzata una coppia di orecchie umane contrapposte in rilievo. Le stele con orecchie venivano generalmente offerte, anche se non solo, alla dea Nebet-hetepet (“la signora della soddisfazione”), dea di Eliopoli, una delle forme di Hathor, molto popolare tra gli abitanti del villaggio di Deir el-Medina (presso la Valle dei Re): il suo epiteto era “colei che ascolta, colei il cui aspetto è perfetto”. Le orecchie umane raffigurate indicano la speranza che la preghiera sia ascoltata.

1.2.9 Torso di statua di divinità femminile

Basalto nero
Altezza 18,3 cm
Tarda Epoca Tolemaica o Romana (I secolo a.C.)

Torso acefalo mutilo delle braccia che erano, per quanto rimane visibile, aderenti al corpo. La spalla destra appare sollevata leggermente in relazione all’atto della figura, presumibilmente avanzante con l’avambraccio destro sollevato a reggere un bastone o altro. Nel mezzo della schiena il largo e piatto pilastrino di sostegno. Mancano tracce della presenza della consueta lunga parrucca, fatto che farebbe pensare all’iconografia della dea Neith, che presenta inoltre il torso nudo e spesso è priva, come in questo caso, della collana. Si tratta di uno di quei pezzi di fattura tarda che lasciarono l’Egitto in epoca antica e sono stati rinvenuti in scavi presso le città della Magna Grecia, come – in questo caso – la colonia spartana di Taranto.

1.2.10 Piccola testa di divinità femminile

Steatite
Altezza 5,8 cm
Nuovo Regno (1543-1078 a.C.)

Della piccola statua rimane la testa troncata all’altezza delle spalle. Il delicato volto ha particolari incisi come la bocca e le sopracciglia mentre gli occhi dal campo ribassato e non lisciato mostrano che erano intarsiati in diverso materiale. La parrucca lascia libere le orecchie e scende tripartita. Sulla fronte è l’ureo e in cima alla testa l’imposta cilindrica su cui era fissato il diadema, probabilmente metallico.

1.2.11 Bronzetto di Iah

Bronzo
Altezza 17,7 cm
Dalla fine del Nuovo Regno (XIII secolo a.C.)

Personificazione della luna, Iah è raffigurato seduto su un trono a basso schienale. Sul capo porta un diadema costituito dal disco e dal crescente lunare, sorretti dietro da un piccolo pilastro, in cima al quale era presente una figura, probabilmente quella di un babbuino, animale associato al dio. Ha un ureo sulla fronte, e al mento la barba divina. Indossa un corto gonnellino pieghettato. Il braccio destro, piegato, poggia sulle gambe, la mano stretta a pugno. Il sinistro, piegato anch’esso, teneva in mano uno scettro. La luna, per le sue fasi cicliche regolarmente scandite, diventa simbolo di morte e rinascita, e nella cosmogonia egizia viene identificata con l’occhio sinistro di Ra (il destro era il sole).

1.2.12 Statuina in legno di Iside

Legno ingobbiato e dipinto
Altezza 8,7 cm
Epoca Tolemaica (332-30 a.C.)

La dea è raffigurata secondo il tipo della cosiddetta Iside lactans, cioè ritratta nell’atto di allattare suo figlio Horo/Arpocrate. Seduta su un trono a basso schienale, porge con la mano destra il seno sinistro al figlio, disteso sulle sue ginocchia. Sul capo porta il consueto diadema, con una base su cui sono innestate le corna bovine tra le quali è il disco solare. Il figlioletto ha normalmente la treccia infantile sul lato destro del capo ed un ureo sulla fronte.

1.2.13 Bronzetti di Iside

Bronzo
Altezza tra 7 e 17 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Anche nei bronzetti il tipo rappresentato è quasi sempre quello di Iside che allatta il figlio Horo. La peculiarità di queste figurine risiede nella mancanza del trono, che doveva essere fatto di altro materiale (deperibile, come il legno, o più prezioso, come altri metalli).

1.2.14 Statuine di Iside

Basalto e terracotta
Altezza 11 e 9 cm
Epoca Tolemaica (332-30 a.C.)

Pur essendo di stile più corsivo rispetto agli esemplari cronologicamente precedenti e ad esemplari contemporanei, ma eseguiti con maggior cura, anche queste statuine raffigurano la dea Iside che allatta il figlio Horo. In questi esemplari è presente il trono a basso schienale su cui siede la dea.

1.2.15 Amuleti di Iside

Faïence
Altezza tra 1,5 e 3,5 cm
Dalla XVIII dinastia al Periodo Romano (1543 a.C. – 395 d.C.)

La dea è raffigurata in sembianza di donna con in capo il suo geroglifico, il trono, oppure il diadema hathoriano con le due corna bovine e il disco solare; anche negli amuleti viene spesso ritratta con il figlioletto in grembo, nell’atto di allattarlo.

1.2.16 Bronzetti della dea Neith

Bronzo
Altezza tra 15 e 16,5 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

La dea della guerra e della caccia venerata a Sais è raffigurata in piedi, nell’atto di camminare, con la corona rossa del Basso Egitto sul capo ed una lunga veste aderente. Il braccio destro è sempre steso lungo il corpo, la mano chiusa a pugno, in alcuni casi a reggere un segno ankh, il simbolo della vita. Il braccio sinistro invece è leggermente proteso in avanti, anche in questo caso con la mano stretta a pugno: nell’iconografia tradizionale della dea, essa regge un arco o uno scettro; non sembra però, come spesso accade, che queste insegne fossero previste per le statuine del museo, dal momento che non sono presenti fori per la loro inserzione.

1.2.17 Manici di sistro

Faïence
Altezza 7, 10,3 e 7,5 cm

Serie di manici frammentari raffiguranti su entrambi i lati il volto della dea Hathor, con l’ampia parrucca e le piccole orecchie di vacca; essi costituiscono per la precisione l’elemento centrale di raccordo tra il manico e la parte superiore di alcuni sistri, strumenti musicali che, agitati, facevano vibrare delle barrette metalliche (munite o meno di sonagli) poste in un telaio, che ne costituisce appunto la parte superiore. Si tratta di uno strumento molto comune nell’antico Egitto, legato in particolare alle cerimonie religiose e attestato in vari materiali.

1.2.18 Statua in legno di divinità femminile

Legno scolpito e dorato
Altezza 40 cm
Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) ?

La dea siede su un trono cubico privo di spalliera, decorato solo lateralmente da due riquadri a sottosquadro lisci. Indossa una lunga veste aderente, le mani riposano sulle cosce. Poggia su una base sagomata non originale, che presenta un lungo canale rettangolare in cui è incassato il “perno” originale eccezionalmente lungo e profondo, che longitudinalmente si estende sotto tutta la figura. Il piccolo volto dai lineamenti fini aveva occhi intarsiati (ora perduti) e piccola bocca con accenno al sorriso. Rimane un breve ma profondo incasso verticale rettangolare sulla fronte per l’inserimento dell’ureo. Sul capo la dea portava un ampio diadema del quale rimane solo un breve tratto della base a tronco di cono rovesciato, in cui superiormente al centro è un foro che serviva per la probabile inserzione delle corna bovine con disco solare. La parrucca era tripartita ed era realizzata in un altro materiale poiché la zona corrispondente è a sottosquadro (evidente sulle tempie, sul petto e sulla schiena). Sulla schiena, sotto la parrucca, è un foro circolare di 1 cm di diametro, mentre tracce di doratura si vedono soprattutto sul ventre.

1.2.19 Frammento di rilievo con divinità femminile

Arenaria
Altezza 16,5 cm
Epoca Tolemaica (332-30 a.C.)

Frammento parietale in arenaria proveniente, come ricordato dal donatore Giuseppe de Pollo, dal complesso templare dell’isola di File: il pezzo ha forma rettangolare con lato sinistro regolare e parte superiore del lato destro rifiniti, mentre è troncato inferiormente in modo irregolare. Il rilievo presenta una figura femminile seduta verso sinistra, spezzata sulla linea del trono a bassa spalliera, con in capo il diadema hathoriano poggiato sulle spoglie dell’avvoltoio. La lunga parrucca ricade sulla schiena. Tiene il braccio destro proteso in avanti, verso il basso, e stringe nella mano lo scettro di papiro (uag); il braccio sinistro è flesso con la mano verticale aperta dal palmo rivolto in avanti a “offrire” il geroglifico sa (cioè “protezione”). Davanti ad essa doveva dunque esserci un’altra figura, probabilmente di un sovrano. Il fatto che, tuttavia, la zona di fronte al volto della dea sia rilevata rispetto al resto fa pensare che la lavorazione non sia stata terminata: è possibile che in quest’area si intendesse incidere il testo che identificava la divinità.

 

Vetrina 1.3

Pyramidion

 

Calcare inciso
Altezza 36 cm
Epoca Tolemaica (332-30 a.C.)

Il monumento, a forma di piramide tronca, serviva come coronamento della piramide di mattoni crudi che fungeva da copertura per una cappella funeraria. Fu proprietà di Nes-nebu-hotep, sacerdote funerario e imy-is (incarico di cui non è ben nota la funzione) figlio di Kef(a) e Ta-henemet: egli è raffigurato sulla faccia principale in posizione di preghiera, mentre è in adorazione del sole che sorge (o tramonta) all’orizzonte, il quale in cambio spande benefico i suoi raggi sul defunto. Sulle altre tre facce, in armonia col carattere solare del monumento, sono rappresentati i tre aspetti dell’astro: Khepri, il sole che sorge, riconoscibile dallo scarabeo che è posato sulla sua testa; Ra-Harakhty, il sole medesimo in tutta la sua potenza, a testa di falco e disco solare con ureo sul capo; e Atum il sole al tramonto, raffigurato come un sovrano con la corona bianca dell’alto Egitto. Tutti gli dei hanno in mano uno scettro uas e la loro figura è accompagnata da iscrizioni geroglifiche che ne riportano i nomi. Sulle facce sono ancora presenti tracce del colore (rosso e giallo) con cui il pyramidion era stato originariamente dipinto. La datazione è stata possibile grazie a confronti provenienti dal sito di Abido.

 

Vetrina 1.4

Papiro funerario

 

Papiro
Altezza media 34 cm
XVIII dinastia (1543-1292 a.C.)

I quattro fogli di papiro, acquisiti nel 1911, provengono dal Libro dei Morti (una raccolta di formule magiche chiamata dagli antichi egiziani “Capitoli per uscire al giorno”, che garantiva a chi lo possedeva la vita eterna nell’aldilà) di Amen-hotep, scriba contabile delle mandrie del tempio di Amon a Tebe, collocabile cronologicamente durante i regni di Hatshepsut\Thutmosi III ed Amenofi II della XVIII dinastia (1491-1398 a.C.). Tutti i fogli facevano parte di un’unica striscia lunga più di 15 metri, i cui rimanenti 23 fogli sono conservati presso il Museo Egizio del Cairo (papiro Bulaq 21), che non fu realizzato espressamente per lo scriba contabile Amen-hotep, ma da questo acquistato già pronto: si nota infatti che la mano che ha scritto il nome del proprietario è diversa da quella che ha redatto il resto dei testi.


Il primo foglio è occupato interamente da una scena in cui il defunto, seguito dalla moglie e dalla figlia (riconoscibili grazie ai geroglifici che accompagnano le figure), adora il dio Osiride nella sua consueta iconografia, seduto in trono sotto un padiglione, e gli offre un mazzo di fiori di loto. Davanti al dio vi è un tavolino con un altro mazzo degli stessi fiori.


Il secondo foglio è occupato interamente da testi in geroglifico corsivo, i quali riportano alcuni capitoli del Libro dei Morti. A sinistra, in sette colonne, il testo dei capitoli 171 e 141: il primo è un’invocazione a svariate divinità affinché concedano al defunto di indossare la veste consacrata, di ottenere la loro benedizione e di restare lontano da ogni male. Il secondo, che continua anche nella parte destra del foglio (suddivisa in quattro colonne con 22 righe orizzontali ciascuna) assieme al capitolo 143, contiene l’elenco dei nomi e delle titolature di Osiride e di alcune altre divinità.


Il terzo foglio presenta a sinistra, in alto, una vignetta con il dio del sole Khepri a testa di scarabeo, nella barca solare assieme ad altre divinità e al defunto, e sotto 11 colonne in geroglifico con un estratto dal capitolo 100 del Libro dei Morti il cui testo augura allo spirito del defunto che possa essere reso perfetto e possa salire sulla barca di Ra. La restante porzione del foglio mostra l’immagine di sette porte in alto e in basso i rispettivi messaggeri. Al centro ci sono colonne di geroglifici con i nomi delle porte e dei messaggeri, che il defunto doveva conoscere e pronunciare correttamente per poterle attraversare (i nomi sono parte del capitolo 144 del Libro dei Morti).


Sul quarto foglio vi è di nuovo una scena che occupa tutto lo spazio: Amen-hotep è raffigurato nel suo sarcofago, nero a bande gialle, che viene tenuto in piedi da uno dei suoi figli, Neb-uau. Di fronte al sarcofago vi è una tavola colma di offerte di cibo e bevande. Davanti alla tavola vi è un altro figlio di Amen-hotep che versa acqua sul sarcofago del padre, purificandolo, mentre un terzo figlio (la figura più a sinistra, con la pelle di leopardo) regge lo strumento che serviva per il rituale dell’Apertura della Bocca. Questo rito era necessario per restituire alla mummia l’uso dei cinque sensi e della parola, di modo che potesse nutrirsi e sopravvivere nell’aldilà.

 

Vetrina 1.5

Vasi canopi

 

I vasi canopi sono quei contenitori, generalmente in set da quattro, che servivano per contenere i visceri imbalsamati dei defunti. Inizialmente erano chiusi con ciotole rovesciate, poi con coperchi raffiguranti la testa del defunto (come per i canopi di Tut-ankh-amon) oppure le teste dei quattro Figli di Horo, geni funerari che proteggevano ciascuno un organo: Hapi, il babbuino, i polmoni; Amseti, l’uomo, il fegato; Kebehsenuf, il falco, l’intestino e lo sciacallo Duamutef lo stomaco. Il cuore era lasciato nel corpo, poiché si riteneva che fosse la sede del pensiero e dei sentimenti, mentre il cervello veniva estratto e gettato via, in quanto ritenuto un organo inutile. Nel corso della XXI dinastia (1078-945 a.C.) si affermò l’usanza di rimettere gli organi imbalsamati nel corpo, rendendo così inutili i canopi. Dal momento che, però, era ormai tradizione averli nel corredo, essi diventarono dei finti vasi, o “pseudocanopi”: pur mantenendo la stessa forma, non avevano lo spazio vuoto all’interno e quindi non potevano contenere alcunché.

1.5.1 Set di vasi canopi di Cia-en-heb

Alabastro scolpito, inciso e dipinto
Altezza 47 (vaso 36) cm
XXVI dinastia (672-525 a.C.)

Serie completa degli eleganti vasi canopi appartenuti alla defunta Cia-en-heb, signora della casa. I vasi hanno corpo panciuto, sul quale è incisa l’iscrizione distribuita su quattro colonne verticali con caratteri geroglifici incisi, resi con perizia ed armonica distribuzione e che conservano tracce del colore nero con cui erano rubricati.
I coperchi, scolpiti con tecnica sicura e modellazione accurata, raffigurano i quattro Figli di Horo; le teste hanno un’espressione solenne e severa, che si addice al loro compito di divinità funerarie: il babbuino Hapi, a cui nel testo è associata Nefti come dea protettrice, l’uomo Amseti associato ad Iside, il falco Kebehsenuf associato alla dea scorpione Selkis e infine lo sciacallo Duamutef associato alla dea di Sais Neith.

1.5.2 Pseudocanopi

Calcare
Altezza 33 (vaso 23) cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

I tre tozzi vasi in alabastro non lucidato e i coperchi zoomorfi, dal modellato largo e tondeggiante, non stilizzato nei particolari, formano una serie unica priva del testo geroglifico. Si conservano completi il vaso con testa di babbuino e quello a testa umana, solo il coperchio a testa di falco, mentre manca il coperchio a testa di sciacallo di cui è invece presente il vaso. Si tratta di pseudocanopi poiché sono privi dello spazio interno. Pur essendo posti nella tomba vicino al sarcofago, avevano un valore esclusivamente simbolico.

 

Vetrina 1.6

Sarcofago di Suty-nakht

 

Granito rosa di Assuan
Altezza complessiva 152 (cassa 100); lunghezza 247; larghezza 90 cm
XIX dinastia (1292-1186 a.C.)

Il grande sarcofago antropoide in granito rosa di Assuan, con il suo coperchio, supera il peso di sei tonnellate e proviene con tutta probabilità da Menfi. È appartenuto al dignitario Suty-nakht, che ricoprì le cariche di scriba reale, flabellifero alla destra del Re, preposto al Tesoro del Signore delle Due Terre; dello stesso personaggio si conoscono anche otto statuine funerarie, delle quali sette conservate all’Hermitage e una al Museo di Erevan, che confortano la datazione alla XIX dinastia anche del sarcofago, già suggerita dal suo stile.
La tecnica usata per il rilievo è quella ad incavo, con i contorni dei geroglifici e delle figure molto profondi, ma la grana della superficie del granito ne impedisce una facile lettura. I testi geroglifici, incisi sulla superficie esterna, ripetono per ben 21 volte il nome e i titoli del defunto, lasciando poco spazio alle formule rituali, alternate alla teoria di divinità, tutte legate al mondo di Osiride e protettrici del defunto.
Il sarcofago è noto come sarcofago Panfili, dal nome della famiglia triestina che lo donò al Museo nel 1950. Era giunto in proprietà della famiglia in modo molto singolare: si racconta che nella prima metà del XIX secolo fosse imbarcato su una nave inglese proveniente dall’Egitto che dovette fare scalo a Trieste, dove a causa di un’avaria sostò nel cantiere navale di Odorico Panfili; non avendo come pagare la riparazione, il capitano lasciò il cimelio egizio in pegno, ma non tornò mai a riscattarlo. Quando nel 1852 i cantieri Panfili vennero chiusi il sarcofago fu spostato nel cortile della casa della famiglia, in via Milano 4. Un secolo più tardi venne donato al Museo.
Il coperchio ha forma antropoide molto semplificata: il largo e piatto volto è circondato dalla parrucca trattata a fasce parallele (che scendono orizzontali anche sulla cassa), lasciando visibili le orecchie. Al mento è una barba divina. Le braccia, incrociate sul petto, si sovrappongono ad una ricca collana e le mani stringono due segni geroglifici: un ged (simbolo di stabilità) e un tit o “nodo di Iside”, che garantiva la protezione della dea. Sotto le braccia, la dea del cielo Nut inginocchiata stende in segno protettivo le sue ali. Lungo le gambe e nella zona dei piedi sono distribuiti, in una scacchiera, il testo geroglifico e le immagini di diverse divinità, tra le quali vale la pena di ricordare Anubi, Iside e sua sorella Nefti, i quattro Figli di Horo, tutti strettamente legati al mondo funerario e raffigurati quasi sempre come figure mummiformi accovacciate.


Per quanto concerne la cassa del sarcofago, le raffigurazioni sono tutte relative al mondo di Osiride e comprendono perlopiù divinità protettrici; i testi, anche in questo caso, riportano nome e titoli del proprietario e alcuni brani di formule magiche legate ai riti funebri. Sul lato corto corrispondente alla testa è rappresentata la dea Nefti, inginocchiata sopra il segno nebu, che indica l’oro come metallo prezioso, e con il segno geroglifico del suo nome sul capo; ha entrambe le braccia alzate, come ad abbracciare il sarcofago, e appeso al braccio destro il segno geroglifico sa, che indica la protezione magica che la dea esercita in favore del defunto.

All’estremità corrispondente ai piedi è invece presente, nella medesima posa, la dea Iside.


Il fianco destro presenta scene ed iscrizioni a partire dalla testa, che è riconoscibile grazie alle bande della parrucca rese da numerosi tratti orizzontali paralleli. Per primo il dio Anubi in forma di sciacallo, accovacciato su di un podio. Tra le zampe anteriori regge lo scettro sekhem, al collo ha un nastro e sul dorso spunta il flagello. Sopra la figura del dio sono un occhio ugiat, simbolo di buona salute, e la legenda che riporta il suo nome. Subito dopo seguono colonne di iscrizione, in relazione con la successiva figura del genio funerario Duamutef, a testa di falco, ritratto nell’atto di camminare. La figura successiva è quella di Kebehsenuf, genio funerario a testa di sciacallo, anche lui ritratto nell’atto di camminare, e ultima è quella di una divinità dalla testa di ibis, che regge nelle mani un alto bastone a cui è fissata una bilancia, il tutto sovrastato dal geroglifico per “cielo”. Il testo relativo nomina il dio Dunauy, che però è normalmente raffigurato come un falco con le ali spiegate.


Il fianco sinistro della cassa presenta un’identica scansione di scene ed iscrizioni. Comincia, dopo la parrucca, con due colonne di testo, cui seguono due occhi ugiat contrapposti che stanno sopra una facciata architettonica in cui si aprono due porte: nella porta di sinistra compare la figura mummiforme e seduta della dea scorpione Selkis, con il segno della vita sulle ginocchia e il geroglifico del proprio nome sulla testa; in quella di destra la dea della caccia Neith, in identica posizione e con gli stessi attributi. Seguono altre colonne di geroglifici e la figura del genio funerario Amseti, a testa umana. Dopo di lui si vede Hapi dalla testa di babbuino, preceduto da una colonna di testo. L’ultima parte del fianco comprende un’iscrizione e la figura del dio Thot a testa di ibis, ritratto nell’atto di camminare, con il braccio destro alzato davanti a lui e un lungo bastone a cui è fissata una bilancia nella mano sinistra. Sopra il dio vi è il geroglifico per “cielo”.

 

Vetrina 1.7

Statua di sovrano inginocchiato dietro a una stele

 

Arenaria grigia
Altezza 27 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

La piccola scultura a tutto tondo raffigura un giovane uomo, ritratto inginocchiato in posizione di preghiera, con i palmi delle mani aderenti ad una stele rettangolare arcuata in alto, alta quanto la figura umana. Il personaggio è identificabile come un sovrano grazie al suo copricapo, il nemes liscio che ricade con due bande sul petto lasciando libere le orecchie, e dalla presenza dell’ureo sulla fronte. Una cintura liscia ai fianchi è l’unico elemento visibile dell’abito, mentre è presente un pilastrino sulla schiena. L’esecuzione dell’opera non è stata portata a termine, come dimostrano la mancanza delle iscrizioni (momento finale di un’opera compiuta), lo schema squadrato, l’approssimazione con cui sono state rese le parti anatomiche e la mancanza di rifinitura dei particolari, tranne nei piedi. Si tratta di uno dei numerosi pezzi di laboratorio artigiano, forse un esempio di modello per scultore, eseguiti dalle botteghe di Epoca Tarda.

 

Vetrina 1.8

Stele funeraria di Amen-em-inet

 

Arenaria grigia incisa e dipinta
Altezza 54 cm
XIX dinastia, regno di Ramesse II (1279-1212 a.C.)

La stele, arcuata nella parte superiore, presenta superficie e bordi deteriorati in più punti; i colori vivaci con cui era originariamente dipinta sono quasi del tutto scomparsi; le incisioni geroglifiche sono difficilmente leggibili, ma si riesce comunque a capire che il testo riporta sia il nome della divinità a cui viene reso omaggio sia il nome e i titoli del proprietario della stele: si tratta di Amen-em-inet, capo dei Megiai (corpo di polizia deputato perlopiù alla protezione delle carovane a partire dal Nuovo Regno), che è noto anche da un rilievo del Museo Nazionale di Napoli, in cui è raffigurato insieme ai suoi parenti in un gruppo di 25 persone, databile al regno del faraone Ramesse II. La stele appartiene dunque all’epoca di questo faraone e proviene con ogni probabilità dalla necropoli di Tebe. La scena mostra il defunto Amen-em-inet che adora Osiride mummiforme in trono con scettro e flagello. Davanti al dio una tavola di offerte.

 

Vetrina 1.9

Stele funeraria di Sa-hathor

 

Calcare
Altezza 46 cm
XII-XIII dinastia (XVIII secolo a.C. circa)

La stele centinata ha la forma classica in uso a partire dal Medio Regno e probabilmente potrebbe provenire da Abido. La superficie è delimitata da una linea incisa ed organizzata in tre zone: nello spazio arcuato superiore sono raffigurati due occhi ugiat – o “occhio di Horo” – contrapposti, come augurio di buona salute, e tra loro l’anello shen, simbolo dell’eternità; segue la zona riservata al testo principale composto da 6 righe, che riportano la consueta formula d’offerta funeraria di cibo, bevanda, abiti e tutto ciò che potrà servire al defunto nell’aldilà, assieme al suo nome e a quello dei suoi genitori. Nella parte inferiore sono rappresentati, da sinistra, il defunto seduto su un trono a basso schienale dalle zampe di leone, il figlio (con un incensiere in mano), la figlia e la moglie che, in piedi, gli rendono omaggio. Il proprietario della stele fu lo scriba del distretto Sa-hathor, figlio dello scriba della Grande Prigione Amen-em-hat-senbi e della dama An-merutes-ten-ta-ib.

 

Vetrina 1.10

Stele funeraria familiare

 

Calcare
Altezza 48 cm
XII-XIII dinastia (XVIII secolo a.C. circa)

La stele centinata in calcare commemora un’intera famiglia, quella dei due fratelli Sa-hathor e Itefankhu. Il campo figurato è delimitato tutt’intorno da una linea incisa. Nella centina della stele si vedono due occhi ugiat affrontati, simbolo usuale di buona salute, con in mezzo un vaso usekh, il tipo di vaso che conteneva l’acqua per la purificazione, e alle due estremità il segno per “acqua”. Immediatamente al di sotto si notano tre righe orizzontali di scrittura, le quali sono divise al centro da una linea verticale, in modo da ottenere due testi differenti ma in posizione speculare, che riportano ciascuno il nome di uno dei due defunti e la comune formula d’offerta funeraria. Al di sotto vi è una scena con i due defunti seduti su una sedia dal basso schienale e con zampe di leone, uno di fronte all’altro. Davanti ad entrambi sta una tavola per offerte: a destra si vedono pani e verdure, mentre a sinistra, al loro posto, vi sono due brevi righe di iscrizione; al centro vi è un personaggio accovacciato, il servitore Neb-ankhu. Nel campo inferiore della stele sono ritratti i parenti dei due defunti: sono tre coppie sovrapposte per lato, separate dalla linea verticale di divisione al centro. Ogni immagine è preceduta da una colonna di geroglifici che riporta il rispettivo grado di parentela, il nome e il titolo di ciascuno.

 

Vetrina 1.11

Usciabti

 

Nella vetrina sono riuniti, oltre a numerosi esemplari di usciabti (esposti in ordine cronologico su diversi gradini, a partire dall’alto), anche altri elementi che facevano parte del corredo funerario, almeno in alcune epoche della storia egiziana. Tutti gli oggetti della vetrina sono accomunati dal fatto che servivano ad assicurare al defunto una vita il più comoda possibile nell’aldilà: in particolare, gli usciabti facevano da “sostituti” del defunto: sopra di essi è incisa la formula magica del Cap. VI del Libro dei Morti, che dice: “Oh usciabti! Quando il defunto N (nome del proprietario) sarà chiamato a fare tutti i lavori che ci sono da fare nell’aldilà, tu risponderai: eccomi!”.
In pratica, la statuina si sarebbe animata e sarebbe andata a lavorare al posto del suo proprietario, permettendogli di trascorrere l’eternità senza fatiche.

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1.11.1 Statua di Ptah-Sokar-Osiride

Legno stuccato e dipinto, tracce di doratura
Altezza 58 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Statue di questo tipo rappresentano il defunto identificato nella divinità derivata dall’associazione di Ptah, Sokar e Osiride ed erano destinate a garantire la rinascita dopo la morte. Normalmente raffiguravano il dio incoronato, la cui figura era fissata in una base lignea a forma di parallelepipedo allungato. Purtroppo rimane solo la grande figura mummiforme completamente avvolta nelle bende, con collare usekh sul petto e retro piatto. Sopra il capo si conserva parte del perno per l’applicazione della corona. Sul retro, in corrispondenza della parrucca, rimane un incavo di forma rettangolare profondo poco meno di tre centimetri, in cui era forse inserito un Osiride vegetante. Sul davanti della statua vi erano in origine tre colonne di testo, purtroppo talmente rovinate da risultare illeggibili. Sul retro, invece, sono soltanto due colonne conservate per circa metà della loro altezza, il cui testo riporta una formula nella quale il defunto è identificato con il dio raffigurato dalla statua.

1.11.2 Concubine del defunto

Pietra e Terracotta
Altezza 8,5 e 14,6 cm
Fine Nuovo Regno (1292-1078 a.C.) e Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Queste statuine sono convenzionalmente denominate “concubine del defunto”, parte del corredo funebre a partire dal Medio Regno. Ritraggono una figura femminile nuda distesa su un letto oppure in piedi, a simboleggiare la fecondità messa a disposizione del defunto per favorire la sua rinascita. La concubina in alto nella foto, in pietra, è stata eseguita con una certa cura: si vedono la gonfia parrucca con sopra un vaso a tronco di cono rovesciato (chiamato “modio”) e le braccia piegate a reggere un oggetto di forma circolare. Gli esemplari di Epoca Tarda sono realizzati invece in modo sommario e senza cura dei particolari, tranne la sottolineatura del pube.

1.11.3 Usciabti su letto

Arenaria
Altezza 6 cm
XIX dinastia (1292-1186 a.C.)

Un usciabti è disteso su un letto funebre. Ha sul ventre un uccello, a cui manca la testa, in posizione di protezione, ad ali aperte: si tratta del ba, l’anima del defunto. La figurina ha una parrucca rotonda a corto caschetto e una vistosa treccia sul lato destro della testa, che ricade a formare un ricciolo sul petto, tipica della XIX dinastia. I piedi della mummia si elevano in prossimità della spalliera inferiore del letto, che si alza verticale, molto lesionata. Il letto ha zampe di leone realizzate a bassorilievo nel blocco compatto dello spazio sottostante. Ai piedi del letto stava una figurina, ora irriconoscibile: doveva trattarsi di un piccolo usciabti. Si ritiene che questo oggetto, che forse era dipinto a colori vivaci, unisse in sé la sicurezza dei funerali, resi al defunto, così come la protezione della sua mummia.

1.11.4 Coni funerari

Terracotta
Altezza conservata 14 e 16,2 cm
XVIII dinastia (1543-1292 a.C.)

Il cono di sinistra, con asse non perpendicolare alla base e vertice arrotondato, mostra evidente la forma anatomica della mano dell’artigiano e conserva tracce di ingobbiatura color crema. La base presenta due uomini inginocchiati affrontati in atto di adorazione, sotto una barca divina con due colonne di testo frapposte, completamente illeggibili.
Il cono di destra, dalla forma irregolare e leggermente curvo verso il vertice, risulta troncato da rottura. Anche qui sono due figure maschili in adorazione, inginocchiate sopra il segno neb, e una barca solare in alto. Il testo si compone di 2 colonne, che riportano il nome del proprietario del cono: il primo profeta del tempio funerario di Thutmosi I e scriba delle offerte del tempio di Amon Neta.
I coni funerari erano usati come elemento decorativo, probabilmente in gran numero (fino a circa 300), per formare più file orizzontali sulle facciate delle cappelle funerarie di Tebe, infilati nella malta per la punta in modo che si vedesse solo la base circolare, spesso dipinta in rosso.

1.11.5 Usciabti di Sethi I

Legno coperto da una sostanza nera resinosa
Altezza 20 cm circa
XIX dinastia (1292-1186 a.C.)

Sethi I è uno dei faraoni più famosi della storia dell’antico Egitto, non solo per le sue conquiste militari, ma anche per aver avuto, nel suo corredo funerario, il più alto numero di usciabti mai registrato: se ne contano, sparsi nelle collezioni egittologiche di tutto il mondo, circa 700. Tre di questi fanno parte delle collezioni del Museo di Trieste, e sono riconoscibili per il loro aspetto: la figura mummiforme con le braccia incrociate sul petto, sul cui corpo di solito è incisa un’iscrizione su più righe con il nome del faraone e il capitolo 6 del Libro dei Morti, è coperta da una specie di resina nera, che nasconde e protegge tutti i dettagli.

1.11.6 Usciabti del Nuovo Regno

Durante il Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) gli usciabti erano presenti di rado nei corredi, quasi sempre in singoli esemplari. Con il tempo ne aumentò il numero e parallelamente se ne ridussero le dimensioni: dai 30-40 cm dell’inizio del Nuovo Regno si arrivò a circa 15-20. I materiali in cui sono fatti variano: ve ne sono in legno, pietra, alabastro, terracotta, faïence e, anche se più raramente, in bronzo e in vetro.
L’aspetto è quello di figurine mummiformi, con le braccia incrociate sul petto. Nelle mani tengono simboli di protezione magica come il pilastro ged e il nodo tit, oppure gli attrezzi che servivano per il lavoro nei campi, la zappa e il piccone. Sulla schiena, in quest’ultimo caso, poteva esserci la sacca che conteneva le sementi. La lavorazione di solito è accurata, con i dettagli dipinti o in rilievo. Alla fine del Nuovo Regno, compaiono degli usciabti che indossano una lunga gonna: si tratta del normale abbigliamento dei viventi, il quale serviva ad indicare che si tratta di “capisquadra”. A conferma del loro ruolo in mano tengono spesso una frusta.

1.11.7 Usciabti del Terzo Periodo Intermedio

Il deciso incremento del numero di usciabti nei corredi, iniziato alla fine del Nuovo Regno, raggiunge il suo apice nel Terzo Periodo Intermedio (1070-715 a.C.), con 401 esemplari, uno per ogni giorno dell’anno più un “caposquadra” ogni dieci statuine. Gli usciabti, spesso di piccole dimensioni (attorno ai 10 cm), sono in terracotta o in faïence. Caratteristica di questo periodo è la produzione di usciabti in una faïence turchese o azzurro acceso, con i particolari e le iscrizioni (che riportano quasi esclusivamente il nome del defunto e le sue cariche) dipinti in nero. L’iconografia è quella ormai consueta: gli usciabti mummiformi hanno le braccia incrociate sul petto, mentre i “capisquadra” hanno un braccio lungo il fianco e l’altro piegato sul petto, nella cui mano c’è la frusta.

1.11.8 Usciabti dell’Epoca Tarda

Nel Periodo Tardo (715-332 a.C.) gli usciabti sono fatti quasi esclusivamente in faïence, solitamente in color azzurro e verde chiaro, e l’unica tipologia attestata è quella mummiforme. Si nota un ritorno ad un’esecuzione molto dettagliata dei particolari, rifiniti ad incisione dopo la produzione mediante stampi. Le iscrizioni comprendono sia il capitolo 6 del Libro dei Morti sia brevi testi che forniscono nome, titoli e genealogia del proprietario. Nella XXVII dinastia (525-404 a.C.) compare una particolare disposizione del testo, detta a “T”: sul corpo degli usciabti il testo è distribuito in una riga all’altezza del ventre, sotto alla quale vi è una colonna che scende al centro delle gambe. Altra caratteristica tipica è la presenza del pilastro dorsale e della base sotto i piedi.

1.11.9 Composizioni ottocentesche

Questo tipo di composizioni è stato un aspetto peculiare del collezionismo egittologico del XIX secolo. Piaceva, infatti, ai proprietari di piccoli oggetti, riunire materiali anche molto diversi tra loro (nelle foto si vedono un usciabti turchese, una mano di mummia con anello, svariati amuleti) in insiemi che si potevano esporre nel “salotto buono” ed esibire con orgoglio ai propri ospiti. In queste composizioni, oltre ad un certo gusto per il macabro testimoniato dalle parti di mummia, spesso presenti, si nota a volte anche la commistione con oggetti non originali: al centro della composizione rotonda vi è infatti un’imitazione di usciabti in terracotta bruna.

 

Vetrina 1.12

Amuleti

 

La vetrina offre una vasta panoramica della produzione di amuleti in Egitto. Come soggetti, si incontrano divinità, animali, oggetti d’uso quotidiano o ancora entità soprannaturali come le componenti dell’anima delle persone. Lo scopo degli amuleti, parola di origine araba legata al concetto di “indossare”, “portare appeso al collo”, era quello di fornire protezione dal male in ogni sua manifestazione, prevenendolo oppure ponendovi rimedio, oppure di attirare su di sé il bene.

1.12.1 Amuleti a forma di scarabeo

Gli scarabei, in faïence o in steatite incisa, erano tra gli amuleti e gli elementi di gioielli più diffusi nell’antico Egitto. Data la vastità della produzione, la frequente presenza di imitazioni (anche antiche) e la mancanza dei dati di provenienza, la datazione è spesso difficile, se non impossibile. I tipi sono moltissimi: si va dalle rappresentazioni naturalistiche dell’animale, ad amuleti con il dorso a forma di scarabeo (più o meno stilizzato) e la pancia liscia o con incisioni, che possono essere figurative (animali, dei, scene di caccia, ecc.) oppure riportare iscrizioni (nomi di re e di funzionari, augurii di buona salute e prosperità, crittografie di nomi divini, ecc.). Particolari sono gli “scaraboidi”, spesso dei vaghi di collana che assomigliano agli scarabei per la forma ma hanno altre rappresentazioni sul dorso (ad esempio, il volto della dea Hathor visto di fronte, o altri animali).

1.12.2 Sigilli, anelli e castoni

Non solo gli scarabei con incisi i nomi dei proprietari, ma anche altri oggetti potevano fungere da sigillo, una volta incastonati in anelli di metallo. Nella fotografia se ne vedono alcuni. In particolare, l’anello in basso a destra reca un’iscrizione, sul castone, che augura “Buon anno!”. Si tratta, con ogni probabilità, di uno dei doni che gli antichi egiziani erano soliti scambiarsi nel periodo di Capodanno (che per loro coincideva con il ritorno della piena del Nilo alla fine di Luglio).

1.12.3 Amuleti a forma di doppia piuma

Due diversi amuleti hanno forma di piume: quelli con sommità rigonfia e arrotondata e base tagliata obliquamente simboleggiano piume di struzzo; quelle dritte, affiancate e con punta arrotondata, nervatura centrale e base piatta richiamano invece le penne del falco. Le piume erano legate al concetto astratto di elevazione, di vento, che trasportava l’anima del re nel cielo; chi possedeva questo amuleto sarebbe stato dunque permeato dalla dignità divina e dalla maestà. Gli amuleti a forma di piume furono in uso dalla XIX dinastia al Periodo Tolemaico (1292 – 30 a.C.).

1.12.4 Occhi ugiat

Diffusissimo amuleto, raffigura l’occhio del dio-falco Horo risanato: secondo il mito, nella disputa di Horo e Seth per il trono d’Egitto, quest’ultimo avrebbe strappato un occhio all’avversario. Thot, allora, guarì l’occhio e lo rimise al suo posto, rendendolo di nuovo “ugiat”, che in egiziano significa proprio “in buona salute”. Per questo motivo garantiva a chi lo indossava (sia vivente che defunto) la protezione contro il malocchio e la guarigione delle ferite. Era realizzato di preferenza in colore verde, poiché quel colore era carico di tutti i valori positivi e conferiva a chi lo portava forza, salute e potenza.
Viene raffigurato come un occhio umano, ma ha due appendici inferiori che rappresentano le lacrime o più probabilmente le macchie scure del piumaggio del falco. Quando l’occhio è raffigurato in coppia, quello destro è il sole, quello sinistro la luna; quando è quadruplo indica i quattro punti cardinali.
Gli amuleti a forma di ugiat furono in uso dalla VI dinastia (2350-2192 a.C.) all’Epoca Tolemaica (332-30 a.C.), ma ebbero maggior diffusione a partire dalla XII (1994-1781 a.C.).

1.12.5 Amuleti a forma di cobra

Il cobra eretto è simbolo di regalità e rappresenta il Basso Egitto. La dea cobra Uto era l’occhio del sole che sputa fuoco sui nemici del re. Amuleto di protezione o simbolo di resurrezione, era posto in più esemplari sulla mummia, sulla testa o sopra i piedi o più spesso sul torace; diffuso dalla XXVI dinastia (672-525 a.C.) in poi.

1.12.6 Amuleti a forma di leone e ariete

Il leone era simbolo di forza, potenza e coraggio, e veniva associato al faraone. Era sacro al dio solare Aker, antico dio che proteggeva il passaggio della barca solare di Ra alla “Porta dell’alba” e ai luoghi sacri. Il leone teneva lontano il maligno, perciò decorava le porte, le sedie e i letti.
L’ariete era considerato invece rappresentazione della potenza creatrice del sole e simbolo di forza e fertilità; era sacro ad Amon, a Ra ed a Khnum. Gli amuleti a forma di ariete e di leone furono in uso dalla preistoria fino al Periodo Tolemaico (fino al 30 a.C. circa).

1.12.7 Amuleti a forma di maiale/scrofa e toro

Il maiale conosciuto presso gli antichi egizi derivava direttamente dal cinghiale selvatico ed aveva un muso molto allungato. Come essere impuro, veniva considerato una forma del dio Seth. La scrofa era associata sia a Nut che ad Iside come simbolo della volta celeste che inghiottisce il sole la sera per partorirlo la mattina. È raffigurata grufolante, da sola o mentre allatta sette maialini. L’amuleto era portatore di fecondità, in uso durante la XXVI dinastia (672-525 a.C.).
Il toro era il più importante animale sacro, considerato incarnazione del dio Ptah. Veri e propri culti erano dedicati a tori che erano scelti per alcune caratteristiche del loro manto. Gli amuleti a forma di toro furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Romano (672 a.C. – 395 d.C.).

1.12.8 Amuleti a forma di rana e lepre

La dea rana Heqet era legata alle acque, soprattutto quelle della piena del Nilo, alla vegetazione e pertanto al concetto di germinazione, ed era quindi preposta alle nascite sia umane che divine; era la protettrice delle partorienti ed era legata all’idea della rigenerazione di tutti i defunti nell’aldilà. Gli amuleti a forma di rana furono in uso dalla XVIII alla XXVI dinastia (1543 – 525 a.C.).
La lepre era una creatura divina e simboleggiava il sorgere del sole. Assimilata ad Osiride, rappresentava anche il potere di far resuscitare i defunti. Gli amuleti a forma di lepre furono in uso dalla XXVI alla XXX dinastia (762-343 a.C.).

1.12.9 Amuleti a forma di poggiatesta e filo a piombo

Il poggiatesta era un oggetto legato al dormire, usato come cuscino. L’amuleto realizzato generalmente in ematite o pietra nera, era posto sotto il collo della mummia per “proteggere magicamente” il capo, la parte più caratteristica del corpo, affinché non fosse portato via dai mostri dell’aldilà. Gli amuleti furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Tolemaico (672 – 30 a.C.).

Il filo a piombo assicurava onestà ed equilibrio: “equilibrato, dritto come un filo a piombo”. Gli amuleti furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Romano (672 a.C. – 395 d.C.).

1.12.10 Amuleti a forma di squadra e scala

Gli amuleti a forma di squadra assicuravano onestà ed equilibrio (“retto come una squadra”) e furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Tolemaico (672-30 a.C.).

La scala, invece, simboleggia l’ascensione dell’anima. In alcuni centri di culto, la scala veniva chiamata maqet, raffigurando la scala spirituale usata da Osiride per salire al cielo. Gli amuleti furono in uso dalla XXVI alla XXX dinastia (672-343 a.C.).

1.12.11 Amuleti a forma di cuore

Realizzato in pietra nera, diaspro verde, o altra pietra verde, l’amuleto a forma di cuore veniva posto sulla mummia, per paura che il vero cuore venisse rapito. Doveva assicurare la coscienza del defunto: il cuore era infatti per gli egizi la sede del pensiero – sia buono che cattivo – del sentimento e degli stati d’animo. I capitoli 26-29 del Libro dei Morti riportano: “quando l’amuleto di lapislazzuli verrà posto sul defunto e saranno lette queste formule, il morto riprenderà il dominio del suo cuore nell’aldilà”. Gli amuleti a forma di cuore furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Romano (672 a.C. – 395 d.C.).

1.12.12 Amuleti tit

Simbolo sacro, detto anche “nodo di Iside”, raffigura un pezzo di stoffa piegata e annodata. In corniola o diaspro rosso – simbolo del sangue della dea – doveva essere posto, il giorno del funerale, al collo del defunto per proteggerlo da chi voleva nuocergli. Nel capitolo 156 del Libro dei Morti, il tit permette che il potere magico di Iside protegga il corpo del defunto, che gli sia risparmiato il contatto con esseri che ispirano orrore e disgusto; per lui non esisteranno strade segrete. Gli amuleti a forma di tit furono in uso dalla XIX dinastia al Periodo Romano (1292 a.C. – 395 d.C.).

1.12.13 Amuleti uag

Raffigura una colonna di piante di papiro con fiore aperto e simboleggiava quindi il verde, l’essere freschi; indicava l’idea della giovinezza e del vigore, Doveva trasmettere forza, abbondanza e virilità a chi lo indossava, e ai defunti la garanzia di ringiovanire nella vita eterna. Gli amuleti a forma di uag furono in uso dalla XXVI alla XXX dinastia (672-332 a.C.).

1.12.14 Amuleti ged

Questo amuleto raffigura il geroglifico che indica stabilità, immutabilità, eternità, resurrezione, ma anche forza inestinguibile ed incorruttibilità. Già nella Prima Dinastia (3150 – 2925 a.C.) era un pilastro intorno al quale venivano legate spighe di grano; dal Nuovo Regno (1543 – 1078 a.C.) fu interpretato anche come spina dorsale di Osiride. Un ged, meglio se in oro, era posto sulla gola del defunto durante il suo funerale, con il compito di farlo divenire uno spirito santificato e perfetto, un seguace di Osiride. Nel capitolo 155 del Libro dei Morti l’amuleto fa sì che “è tua nuovamente la tua spina dorsale e le tue vertebre, così che puoi tornare a muoverti…”. Gli amuleti a forma di ged furono in uso dalla VI dinastia al Periodo Romano (2350 a.C. – 395 d.C.), con maggior diffusione dalla XVIII (1543 – 1292 a.C.).

1.12.15 Amuleti Shu

Dio dell’aria, nella cosmogonia eliopolitana era figlio del dio creatore Atum, fratello di Tefnut, e nella Creazione del Mondo aveva il compito di sollevare il cielo – Nut – sopra la terra – Gheb. Negli amuleti è raffigurato a corpo umano con gonnellino, inginocchiato sulla gamba destra; ha le braccia alzate a sostenere il disco solare-cielo, che a volte ha all’interno una piuma. Conosciuto dal Terzo Periodo Intermedio alla XXX dinastia (1070-343 a.C.), l’amuleto era posto sul petto delle mummie.

1.12.16 Amuleti ba

L’entità detta ba è una delle componenti dello spirito dell’uomo: personifica la forza vitale sia fisica che psichica, quella parte che, dopo la morte, può andare insieme al corpo del defunto nell’aldilà e liberamente tornare indietro. Il ba viene rappresentato con corpo di falco e testa umana; due ba accoppiati sono manifestazioni lontane di un essere vivente o di una divinità e segno di potenza. Chi possedeva l’amuleto ba diveniva padrone del principio vitale; uso diffuso dalla XXVI dinastia al Periodo Tolemaico (672 – 30 a.C.).

1.12.17 Amuleti Nefertum

Antico dio identificato con il fiore di loto azzurro, che forma il suo diadema sormontato da due piume di falco. È il dio del profumo umano, figlio di Ptah e Sekhmet a Menfi; ebbe anche aspetto leonino e fu dio guerriero, protettore dell’esercito del faraone. L’amuleto è simbolo di resurrezione e immortalità.

1.12.18 Amuleti Osiride

Popolarissimo dio dei morti, fu fratello di Seth, Nefti e Iside, di cui fu anche sposo, e padre di Horo. Ucciso dal fratello Seth, divenne sovrano dell’aldilà, dio della rinascita e della vegetazione. Viene raffigurato con corpo mummiforme, sul capo regge la corona dell’Alto Egitto affiancata da due piume di struzzo, porta la barba al mento e stringe nei pugni contro il petto scettro e flagello. Gli amuleti di Osiride furono in uso dalla XXVI dinastia al Periodo Romano (672 a.C. – 395 d.C.).

1.12.19 Amuleti Iside

Dea di origine celeste, personificava il trono e il suo nome significa “seggio” o “trono”, quello del cielo, del Sole, ma anche quello terreno del faraone. Sorella e moglie di Osiride, è madre di Horo e per questo divenne archetipo della femminilità con funzione di protettrice, anche dei defunti. A partire dal Nuovo Regno fu associata a quasi tutte le altre dee ed ebbe grandissima diffusione anche nel mondo romano. È raffigurata in sembianza di donna con in capo il suo geroglifico, il trono, oppure il diadema hathoriano con le due corna bovine e il disco solare; viene spesso ritratta con il figlioletto in grembo, nell’atto di allattarlo. Gli amuleti di Iside furono in uso dalla XVIII dinastia al Periodo Romano (1543 a.C. – 395 d.C.).

1.12.20 Amuleto Nefti

Sorella di Iside, Osiride e Seth fu moglie di quest’ultimo e madre di Anubi. Ricoprì principalmente una funzione di protezione del faraone e dei defunti, in coppia con la sorella Iside. Viene raffigurata come donna con in capo i due geroglifici formanti il suo nome. L’amuleto in faïence e lapislazzulo veniva posto sul petto della mummia, accanto a quello di Iside.

1.12.21 Amuleti Arpocrate

Divinità il cui nome significa “Horo il bambino”, in Epoca Tarda personifica il dio Horo in qualità di giovane faraone, figlio di Iside e Osiride. È raffigurato come bambino con la caratteristica treccia di capelli sul lato destro della testa rasata, nell’atto di portare il dito indice della mano destra alle labbra; oppure indossa la grande corona atef di suo padre, con piume di struzzo e corna d’ariete. L’amuleto aveva il compito di proteggere dai morsi degli animali selvatici; in uso dalla VI dinastia al Periodo Romano (2350 a.C. – 395 d.C.).

1.12.22 Amuleti Hathor

Antica e grande divinità celeste, Hathor era figlia di Ra, dea della musica, della danza e della bellezza; protettrice delle donne, assunse anche il ruolo di custode dei defunti. Le era sacra la vacca. È raffigurata con corpo femminile e testa di vacca, o solo con le orecchie dell’animale e corna a forma di lira, tra le quali è il disco solare (diadema hathoriano, portato anche dalla dea Iside).

1.12.23 Amuleti a forma di disco solare, disco solare all’orizzonte, corona bianca e cartiglio

L’amuleto solare è fonte di vita legata al ciclo della rinascita. Chi lo possiede spera di essere unito al sole nel suo viaggio nell’aldilà, fino alla rinascita del mattino. Viene anche raffigurato come sole che sorge sull’orizzonte, akhet, simboleggiato dalla base a forma di valle tra due colline. Gli amuleti a forma di sole furono in uso in tutta l’epoca faraonica.

Gli amuleti a forma di corona – quella bianca dell’Alto Egitto e quella rossa del Basso Egitto – appaiono nel Medio Regno (2160 – 1781 a.C.) a indicare che ogni defunto può accampare diritti regali nell’aldilà. Il proprietario di questi amuleti sarà autorevole come il sovrano. Molto diffusi dalla XXVI dinastia (672-525 a.C.) in poi.

Il cartiglio è l’anello che circonda sempre il nome del faraone. L’amuleto perpetua il nome (ren) del defunto in eterno: tra gli egizi era molto diffusa la credenza che dimenticando il nome di una persona questa cessasse di esistere. Gli amuleti a forma di cartiglio furono in uso durante la XXVI dinastia (672-525 a.C.).

1.12.24 Amuleti Toeris

Il suo nome significa “la grande”; è la madre, la nutrice, la dea protettrice contro gli spiriti malvagi; in particolare protegge le partorienti, i neonati e le madri. La sua immagine associa testa di ippopotamo, corpo femminile gravido, zampe di leone con mani umane e coda di coccodrillo. Il suo amuleto fu in uso dalla XVIII dinastia al Periodo Tolemaico (1543-30 a.C.).

1.12.25 Amuleti Pateco

Figura di nano o pigmeo ignudo, era associato al dio Ptah, con valore di protettore, soprattutto del mondo degli artigiani. Noto già nella VI dinastia, viene utilizzato come amuleto a forma umana a tutto tondo e dal Terzo Periodo Intermedio può essere anche bifronte o doppio, schiena contro schiena. Gli amuleti ebbero particolare diffusione dalla XXI dinastia al Periodo Tolemaico e Romano (1070 a.C. – 395 d.C.).

1.12.26 Amuleti Bes

Divinità minore, divenne molto popolare in Epoca Tarda, in qualità di protettore contro le insidie e gli spiriti cattivi. Patrono del sonno, aveva il compito di vegliare sul parto e sui neonati. È raffigurato con aspetto grottesco e mostruoso di nano ignudo, dalle corte gambe storte, grossa testa (a volte leonina), criniera e barba irsuta, naso schiacciato e lingua penzoloni. In capo porta una corona di piume di struzzo. Gli amuleti di Bes furono in uso dalla XVIII dinastia al Periodo Romano (1543 a.C. – 395 d.C.).

 

Vetrina 1.13

Animali

 

Gli animali avevano un ruolo molto importante nell’antico Egitto. Non solo come animali domestici (cani e gatti di casa sono stati spesso raffigurati nelle tombe e sulle stele assieme ai loro padroni), ma anche e soprattutto come incarnazioni viventi di molte divinità. Quasi tutti gli dei avevano un animale sacro e ad alcune specie erano tributati veri e propri culti (falchi e tori, soprattutto), ed è noto che venivano mummificati e sepolti in necropoli apposite.

1.13.1 Statuina lignea di sciacallo

Legno stuccato e dipinto
Altezza 20 cm
XXV-XXVI dinastia (747-525 a.C.)

Queste figure di cane o sciacallo disteso erano normalmente poste, da sole o in coppia, sui coperchi dei sarcofagi qersu (a cassa rettangolare e coperchio con volta a botte e quattro pilastrini agli angoli) tipici della XXV dinastia. La divinità raffigurata è Upuaut, l’“apritore delle strade”, un dio di ambito esclusivamente funerario che venne poi associato ad Anubi. La sua funzione era quella di garantire al defunto un passaggio sicuro per l’aldilà. L’aspetto di Upuaut è quello tipico: un canide disteso, con le zampe anteriori allungate, il manto di colore nero, il lungo muso appuntito dalle grandi orecchie, ed una sciarpa rossa annodata al collo. La lunga coda che pendeva diritta verso il basso, ora perduta, era scolpita a parte e fissata con un perno in legno.

1.13.2 Amuleti Anubi

Aiutante prediletto di Osiride, fu preposto alla mummificazione e alla protezione del defunto nel viaggio verso l’aldilà. Il suo animale sacro è lo sciacallo, il canide che sembra vegliare sulle necropoli; proprio questo compito di guardiano accomuna Anubi all’altro sciacallo Upuaut. Gli amuleti raffiguranti il dio Anubi furono in uso dalla XXVI dinastia all’Epoca Romana (672 a.C. – 395 d.C.) e lo raffigurano a corpo umano con testa di sciacallo.

1.13.3 Mummia di gatto

Altezza 43,5 cm
Epoca Tarda o Tolemaica (715-30 a.C.)

Il giovane felino è stato imbalsamato con l’accurata tecnica tradizionale per i gatti adulti (molto simile a quella dei corpi umani). La mummia mostra una evidente rottura nel punto del collo, che però non permette di capire se l’animale sia stato ucciso con la dislocazione della vertebra cervicale (come moltissime altre mummie di gatti). Il cervello, di cui rimangono pochi residui, è stato estratto dall’osso posteriore del cranio. Il corpo eviscerato è stato trattato con cura. Il bendaggio è stato realizzato con strisce di lino e sul muso sono stati tracciati con linee nere la bocca, il naso e gli occhi, mentre le orecchie erano rese con cartone (ma sono purtroppo andate perdute).

1.13.4 Amuleti a forma di gatto

Animale sacro alla dea Bastet, dea della fertilità, delle feste e delle intossicazioni. Questo tipo di amuleti fu in uso dal Terzo Periodo Intermedio (1070-715 a.C.) in poi.

1.13.5 Piccoli gatti in bronzo

Bronzo
Altezza 7 e 13,6 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

L’anatomia di questi bronzetti è resa in modo accurato: i felini, dal corpo snello, sono ritratti seduti sulle zampe posteriori, con la coda che aderisce al lato destro del corpo fino a raggiungere le sottili zampe anteriori. I musi sono appuntiti e le orecchie grandi. Statuine di questo tipo, testimoni dell’attenzione con cui gli artisti egizi guardavano ciò che li circondava, diventano particolarmente comuni nel momento in cui il culto degli animali sacri (il gatto era legato infatti alla dea Bastet) cominciò a diffondersi sempre più.

1.13.6 Frammento di statuina di Sekhmet

Arenaria
Altezza 10 cm
Epoca Tarda o Tolemaica (dal 715 al 30 a.C. circa)

Questo frammento, che conserva il busto (spezzato appena sotto il seno) della dea a testa leonina Sekhmet, era forse in origine stuccato e dipinto a colori vivaci. La superficie è purtroppo molto rovinata, ma si distinguono comunque i particolari della parrucca, del largo collare che porta al collo e i tratti del muso da leonessa, con il tratteggio dei peli e le orecchie tonde. Dato lo stato di conservazione, è difficile stabilire una datazione sulla base dello stile.

1.13.7 Bronzetto di Sekhmet

Bronzo
Altezza 14,7 cm
Probabilmente Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Anche questo bronzetto riporta l’iconografia consueta della dea Sekhmet (donna con testa di leonessa). La dea è seduta su un trono a basso schienale, di semplice forma cubica; indossa una lunga veste aderente ed una collana a più giri e le mani, strette a pugno, sono poggiate sulle cosce: la posa è la stessa delle grandi statue della dea ritrovate in gran numero presso il tempio di Mut a Karnak. Sul capo sta normalmente il diadema con il disco solare (qui mancante).

1.13.8 Amuleti di Sekhmet

Molto diffusi tra XVIII e XXX dinastia (1543-332 a.C.), gli amuleti raffiguranti la dea leonessa Sekhmet e la dea gatto Bastet non sono sempre chiaramente distinguibili per la somiglianza tra i due animali e per la ridotta dimensione di questi oggetti. La difficoltà insorge in particolare quando queste due dee sono raffigurate come donne a testa di felino. Associate anche nel culto, incarnarono due aspetti della stessa divinità: Bastet, la gatta, mantenne il suo carattere pacifico di divinità connessa con la fertilità, le festività e la protezione del focolare domestico, mentre l’aspetto bellicoso e terribile venne incarnato da Sekhmet, dea guerriera che proteggeva la regalità e aveva come messaggeri le pestilenze e le malattie (che, però, poteva anche curare). Gli amuleti propiziavano una numerosa prole e proteggevano dalle malattie. Sono noti anche amuleti a forma di piccolissime stele con incisa l’effigie della dea o altri che riproducono il solo busto con larga collana, detto egida. Nel caso di questi ultimi, la dea leonessa raffigurata può anche essere Tefnut. Le egide erano parte delle offerte che i sacerdoti presentavano agli dei durante il servizio mattutino nei templi.

1.13.9 Due Sokar in legno

Legno stuccato e dipinto
Altezza 13,3 e 11,5 cm
XXV-XXVI dinastia (747-525 a.C.)

Le statuine di falco mummiforme, raffiguranti la divinità funeraria Sokar, sono ricavate ciascuna da un singolo pezzo di legno scolpito, stuccato e dipinto. La testa forma un tutt’uno con il corpo, ma l’anatomia è ben delineata. Il becco, piccolo e ricurvo, è dipinto in nero, come gli occhi che risaltano sul bianco della parte anteriore della testa. Il corpo e la parte superiore della testa sono dipinti di rosso, cui è sovrapposto un reticolato nero con motivo a losanga. Sulla base delle loro dimensioni, il falco di sinistra doveva essere posato sul coperchio di un sarcofago qersu o su cassette per il corredo, mentre l’altro poteva essere fissato sulla base di una statua di Ptah-Sokar-Osiride.

1.13.10 Mummia di falco

Altezza 22,5 cm
Epoca Tarda o Tolemaica (715-30 a.C.)

Il rapace adulto, imbalsamato e bendato, è in buono stato di conservazione, ma ha la testa completamente staccata dal corpo e presenta il becco troncato da una rottura. Il corpo eviscerato conserva il cuore e il piccolo torace carenato è riempito con bende impregnate di resina. Al posto degli occhi sono state sistemate delle piccolissime palline in materiale ceramico, forse di faïence. Il falco conserva il suo piumaggio e il corpo fu legato stretto con una corda prima di venir fasciato. Tra le bende è stato individuato un piccolissimo oggetto estraneo, probabilmente un amuleto.

1.13.11 Amuleti a forma di falco

Animale sacro al dio Horo, raffigurato con la doppia corona faraonica, era associato anche al sole Ra (con il disco solare) e alla divinità funeraria Sokar. L’amuleto garantiva al defunto l’eterna rinascita ogni mattina con il sole.

1.13.12 Amuleti Horo

Il suo nome è “falco” e come tale il dio assunse un valore celeste e solare. Fu associato al faraone, in quanto erede di Osiride, e raggruppò in se altre divinità come Arpocrate (Horo fanciullo) e Ra (nella forma di Ra-Harakhty: Horo dell’orizzonte). Gli amuleti, potenti contro gli influssi maligni di Seth, furono in uso dalla XVIII dinastia all’Epoca Romana (1543 a.C. – 395 d.C.).

1.13.13 Amuleti Thot

Dio lunare, originario di Ermopoli, Thot “illumina la terra durante le notti”. Patrono del calcolo, della scrittura (della quale fu ritenuto l’inventore) e delle scienze, fu dio intellettuale, efficace nella magia, poiché conosceva i segreti degli dei. Come sapiente era patrono dei medici. Dio giusto e imparziale, era signore delle leggi e custode dell’ordine terreno e celeste. Era amministratore, messaggero e pacificatore tra gli dei. Ebbe anche un ruolo funerario: accompagnava il defunto nella sala del giudizio e prendeva nota del risultato della pesatura dell’anima. I suoi animali sacri sono l’ibis e il babbuino. Gli amuleti raffiguranti il dio Thot a corpo umano e testa di ibis furono in uso dalla XXVI alla XXX dinastia (672-343 a.C.).

1.13.14 Ibis in bronzo

Bronzo
Altezza 8 cm
Epoca Tarda (715-332 a.C.)

Delle figurine di ibis, animale sacro al dio della sapienza Thot, si notano il lungo becco ricurvo, la testa piccola e un po’ appiattita da cui si snoda il lungo collo sottile, il massiccio corpo con le ali ripiegate e le lunghe zampe. Queste ultime solitamente presentano un perno nella parte inferiore, per fissare la statuetta ad un supporto.

1.13.15 Amuleto a forma di ibis

L’ibis era un animale sacro al dio Thot. L’amuleto, con funzione funeraria, fu usato dalla XVIII dinastia al Periodo Romano (1543 a.C. – 395 d.C.).

1.13.16 Amuleti a forma di babbuino

Il babbuino era un animale legato al sole ed alla luna; era inoltre associato a Thot. Gli amuleti, indossati dagli scribi come segno del loro patrono, avevano anche funzione funeraria. In uso dalla XIX dinastia al Periodo Tolemaico (1292-30 a.C.).

1.13.17 Statuine di babbuino

Arenaria e faïence
Altezza 4,2 e 6,2 cm
A partire dal Nuovo Regno (dal 1543 a.C. in poi)

Il babbuino, animale sacro al dio Thot e legato più in generale alle divinità lunari, è raffigurato solitamente accovacciato, secondo la posa abituale dell’animale, con le zampe anteriori posate su quelle inferiori. L’esemplare in faïence (a destra nella foto) è invece ritratto nell’atto di suonare un liuto, dando così un’immagine giocosa che ricorda le vignette del Papiro Satirico-Erotico di Torino.

1.13.18 Testa di coccodrillo imbalsamato

Lunghezza 63 cm
Epoca Tarda o Tolemaico-romana (VII secolo a.C. – I d.C.)

La testa appartiene ad un individuo adulto, che era stato imbalsamato; le bende sono ora mancanti. L’analisi radiografica non ha evidenziato particolari elementi distintivi.

1.13.19 Mummie di cuccioli di coccodrillo

Lunghezza di quello bendato 80 cm
Epoca Tarda o Tolemaica (715-30 a.C.)

L’analisi ha evidenziato all’interno delle fasce, imbevute di resina, la presenza del corpo intero di un giovane coccodrillo nilotico. Si è potuto osservare che per mezzo di uno spago il coccodrillo è tenuto aderente a tre bacchette in legno, semplici ramoscelli secchi che conservano la corteccia. Gli altri due cuccioli di coccodrillo, mummificati ma sbendati, non hanno caratteristiche distintive.

 

Vetrina 1.14

Sarcofago di Pa-di-amon

 

Legno stuccato e dipinto
Altezza complessiva 45 (cassa 30); lunghezza cm 182; larghezza 52 cm
XXI dinastia (1070-945 a.C.)
Da Tebe

Il sarcofago, di forma antropoide e realizzato in legno stuccato e dipinto, contiene una mummia non pertinente, sebbene della stessa epoca. Non è chiaro se la sostituzione sia avvenuta nell’antichità oppure in epoca moderna: nel XIX secolo, infatti, era abitudine degli antiquari inserire mummie qualsiasi in sarcofagi vuoti per ricavare un prezzo più alto dalla vendita. Quella che attualmente si trova al suo interno, ad ogni modo, è la mummia di una donna, ora parzialmente sbendata e disarticolata. In origine, l’imbalsamazione era stata fatta con molta cura, secondo i migliori standard dell’epoca: la defunta doveva essere una dama dell’alta società, e proprio per questo forse i saccheggiatori di tombe si sono accaniti sulla sua mummia, che doveva essere ornata da gioielli. Al momento della morte, le cui cause restano sconosciute nonostante le indagini effettuate, la defunta aveva 30-35 anni.
Il sarcofago appartenne, secondo quanto vi è iscritto, a Pa-di-amon, un sacerdote del dio Khonsu. Il tempio di questo dio, che fa parte della cosiddetta Triade Tebana quale figlio di Amon e Mut, si trova entro il recinto del tempio di Karnak: era probabilmente lì che Pa-di-amon serviva come sacerdote (un’ulteriore conferma è fornita dalla tipologia del sarcofago stesso, propria della produzione tebana della XXI dinastia). In più punti, sovrapposti ai titoli del defunto ed anche al nome stesso, sono presenti delle nuove iscrizioni con titoli e nome diversi. Ciò fa presumere che il sarcofago sia stato usurpato, oppure che in un momento successivo i titoli del primo proprietario siano stati integrati con l’elencazione di nuove cariche, con conseguente spostamento del nome, tanto da farlo sembrare un altro. Purtroppo le abrasioni sui fianchi della cassa e la massiccia sostituzione del legno del coperchio non permettono la ricostruzione completa del nome e delle cariche appartenenti alla seconda fase di scrittura.

Il coperchio si presenta in uno stato di conservazione piuttosto scadente: la parte originale presenta notevoli danni allo strato di stucco dipinto, rendendo difficile distinguere i testi e la decorazione, mentre gran parte delle gambe, il naso e le mani sono state restaurate con l’inserzione di legno nuovo, dipinto di grigio per non “stonare” con gli altri colori. Non è stato possibile determinare in quale epoca sia stato eseguito questo “restauro”, ma dato lo stile dell’intaglio di naso e mani si potrebbe pensare al XIX secolo. Il volto è incorniciato da una gonfia parrucca a righe, con due bande che scendono lunghe ai lati. Al mento vi è il foro per l’inserzione della barba divina. Al collo porta la consueta collana a più giri e la ghirlanda vegetale. Subito sotto la ghirlanda una dea, probabilmente Nut, spiega le ali a protezione del defunto. Sotto di essa, al centro, una colonna di testo che in origine doveva probabilmente proseguire fino ai piedi. Ai lati di questa iscrizione si distinguono diversi registri decorativi (almeno quattro), tutti con il defunto (rivolto sempre verso il centro del coperchio) ritratto nell’atto di offrire qualcosa (incenso, cibo, vegetali…) e un’iscrizione, generalmente su tre colonne.

Il lato destro della cassa è decorato in alto da un’iscrizione in un’unica linea, al di sotto della quale la superficie è divisa in tre pannelli intervallati da altre iscrizioni geroglifiche, che riportano formule magiche.

La prima scena a partire dalla testa, preceduta dal dio Thot detto signore dei geroglifici, rappresenta la grande figura della dea Nut che si piega ad arco come la volta del cielo; sotto di lei in atto di sostenerla sta il dio dell’atmosfera Shu e ai suoi piedi il dio Gheb, disteso a terra con il corpo dipinto di verde. La scena rappresenta la creazione del mondo nel momento in cui l’atmosfera sollevò il cielo sopra la terra.

La scena centrale è preceduta dalla figura di Pa-di-amon in atto di adorazione: la barca solare ha al centro il dio del sole Ra-Harakhty rappresentato dalla testa di falco sormontata dal disco solare; a prua la dea Iside, protettrice del viaggio del sole nel mondo sotterraneo (la notte). Sotto la barca il serpente Apofi, il nemico perenne del dio del Sole, con il lungo corpo in spire trafitto da coltelli.

Nella terza scena, l’anima di Pa-di-amon, identificata dal suo cuore, viene pesata in contrapposizione ad una piuma (simbolo di giustizia e verità) per verificare la sua condotta in vita: se il cuore avrà peccato sarà pesante più della piuma, quindi verrà gettato in pasto al mostro divoratore (qui non raffigurato). Se al contrario sarà puro, leggero come la piuma, avrà in dono la vita eterna e verrà detto “giustificato”. Da sinistra si vedono la dea Imentit dell’Occidente, il defunto Pa-di-amon, il dio Thot in funzione di scriba, al centro la bilancia, sormontata da un babbuino, reca a sinistra la figura di un genio e una cassa chiusa, a destra il dio Anubi; seguono il dio Horo e Osiride, seduto sul trono e protetto alle spalle dalla dea Iside.

Sul lato sinistro della cassa, come per l’altro lato, vi è un’iscrizione su un’unica riga orizzontale che sormonta tre scene intervallate da testi.

A partire dalla testa compare il dio Thot, signore dei geroglifici, poi un riquadro con in basso, secondo lo schema consueto del motivo del Grande Serpente con la Doppia Scala, la mummia del defunto distesa all’interno di due gradinate a forma di piramide, sormontata da offerte e protetta dai raggi del disco solare. All’esterno, a sinistra Nekhbet l’avvoltoio, a destra Uto il cobra, le due dee dell’Alto e Basso Egitto; nella zona superiore è rappresentato Osiride con la sua corte di divinità funerarie.

Nella seconda scena vi è a destra il defunto Pa-di-amon in atto di adorazione, mentre nel pannello principale, in alto, è la barca del dio sole raffigurato sotto forma di scarabeo Khepri, il sole che sorge sull’orizzonte al mattino. A poppa, accanto al remo, il cobra ureo si protende a proteggere il sole e, a prua, sta la figura di un genio, forse il defunto stesso. Sopra la barca due immagini dell’occhio sacro ugiat con le grandi ali. Sotto la barca il lungo serpente delle tenebre Apofi che ogni notte cerca di impedire al sole di sorgere ma viene sempre sconfitto.

Nell’ultima scena Nut, che emerge dalle fronde di un albero di sicomoro, offre al defunto gli alimenti della vita eterna, ed egli arriva poi alla montagna dell’Occidente, dove è raffigurata la dea Hathor in forma di vacca, tra le cui corna è il disco solare, ed uno sciacallo su un podio, a fare da guardia.


All’interno della cassa del sarcofago, sul fondo è raffigurata la dea della necropoli tebana Khefet-her-neb-es, con in testa il geroglifico dell’Occidente, e due geni funerari ai lati del suo corpo.

Sulle pareti, in corrispondenza della sommità del capo del defunto, è rappresentato uno scarabeo all’interno di un disco solare, sostenuto da quelle che sembrano quattro braccia.

Sul lato destro sono presenti colonne e righe di testo disposte su diversi registri: all’altezza della testa vi è Iside, inginocchiata ed in atto di adorazione, subito sotto una tavola per offerte che il testo dice dedicata da Amseti, ed ancora sotto il defunto ritratto nell’atto di adorare Osiride. In basso, infine, vi è uno scettro sekhem in forma di feticcio.

Sul lato sinistro la ripartizione della decorazione è la medesima: in alto una dea, che questa volta è Nefti, sotto una tavola per offerte dedicata da Hapi, e infine il defunto in atto di adorazione e lo scettro sekhem in forma di feticcio.

 

Vetrina 1.15

Sarcofago di Aset-reshty

 

Calcare arenaceo
Altezza complessiva 47 (cassa 23); lunghezza 180; larghezza 57 cm
XXVI dinastia (672-525 a.C.)

Questo sarcofago in pietra bianca, che è giunto al Museo privo della sua mummia, appartenne ad una defunta di nome Aset-reshty, figlia di Hedebes-iret-binet e di un capitano di nave di nome Psammetico, vissuta durante la XXVI dinastia (664-525 a.C.). Il sarcofago è di forma antropoide, ancorché semplificata, e mostra soltanto il volto della defunta, con parrucca rigonfia e grandi orecchie. Sugli occhi e sulle sopracciglia si scorgono ancora tracce del colore nero con cui dovevano essere stati dipinti. L’esecuzione non è particolarmente curata, come dimostrato ad esempio dalle orecchie, che sono l’una alquanto più grande dell’altra. Lungo il corpo vi è un testo suddiviso in tre colonne verticali, le quali riportano una formula magica che invoca la protezione del sarcofago sul corpo della defunta, specificando il nome suo e dei genitori. Le colonne sono affiancate da quattro riquadri su ciascun lato, sovrapposti l’uno all’altro e contenenti figure di geni funerari preceduti dal loro nome: sono presenti, tra gli altri, Anubi e i quattro Figli di Horo. Sul rialzo dei piedi, capovolte rispetto al resto della decorazione (come se la defunta potesse leggerli guardandosi i piedi), vi sono le dee Iside e Nefti inginocchiate, nell’atto di proteggere la defunta, come affermano le iscrizioni che accompagnano le figure.
La cassa del sarcofago non è decorata e la sua superficie è lavorata ancor meno accuratamente di quella del coperchio.

Le Collezioni

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