Antiche Tracce

Il Civico Museo d’Antichità “J.J. Winckelmann” inaugura le prime tre sale nell’ambito del progetto generale di riapertura della Sezione Preistorica al primo piano

In occasione del 170esimo anniversario della nascita di Carlo Marchesetti il Civico Museo d’Antichità “J.J. Winckelmann” inaugura, venerdì 17 gennaio alle ore 16, le prime tre sale del progetto generale di riallestimento della Sezione Preistorica che coinvolgerà l’intero primo piano con le sue nove sale. In questa fase sono state riallestite le prime tre, ma tutte le altre sono state coinvolte da una riorganizzazione (anche se utilizzando le vetrine antiche e in attesa dei lavori di adeguamento). Viene così presentata la ricchezza dei materiali custoditi dal Museo attraverso un percorso circolare, che si può visitare sia in senso orario, a iniziare, come ci hanno abituato i libri di scuola, dai periodi più antichi per arrivare all’epoca romana; sia in senso antiorario, procedendo come l’archeologo durante lo scavo, che “sfoglia” le epoche più recenti per arrivare in fondo, a quelle più antiche. All’interno di questo percorso però le sale riescono a presentare separatamente i diversi siti: da San Servolo con la doppia necropoli romana e protostorica, a Santa Lucia con i favolosi corredi, ai quali fanno riscontro quelli di Caporetto, alle necropoli di Pizzughi in Istria ricche di vasellame, al sito spettacolare di San Canziano dove il Timavo precipita nel grande inghiottitoio, ai castellieri dell’altopiano triestino e dell’Istria, per arrivare alle Grotte carsiche; senza dimenticare di rendere omaggio alla figura di Carlo Marchesetti, colui che con determinazione e tenacia fece luce sulla storia della regione in epoca preromana, storia che fino ad allora era del tutto sconosciuta e ignorata.

Sala 1 – Le Grotte del Carso triestino

La prima sala è dedicata alle Grotte e presenta i materiali di sei tra le principali caverne preistoriche: la Grotta Pocala, la Grotta Azzurra, la Grotta delle Gallerie, la Grotta del Mitreo, la Grotta di Sgonico o Cotariova e la Grotta dell’Orso di Gabrovizza.
Allo stato attuale delle ricerche, i resti risalenti alla preistoria o Età della Pietra – che nel Carso copre un intervallo approssimativamente compreso tra 450.000 e 2.000 a.C. – sono stati rinvenuti in circa 180 grotte. Nelle epoche più antiche, nel Carso, furono soprattutto le grotte a ospitare l’uomo, dapprima occasionalmente durante le sue battute di caccia ai grandi mammiferi, poi in modo più ripetitivo quando divenne allevatore e pastore. Allora, agli inizi del II millennio a.C., l’uomo iniziò a costruire strutture fortificate all’aperto, sulle alture, note come Castellieri, ma non smise di frequentare le cavità naturali, anche se verosimilmente in modi diversi dai precedenti.
I materiali da diversi scavi condotti da Carlo Marchesetti e poi da altri archeologi (in questo caso si tratta di depositi dello Stato) sono presentati organizzati come fossero depositi stratigrafici – i livelli più antichi in basso, quelli più recenti in alto – con i materiali collocati nella fascia corrispondente al periodo cui vengono datati. Gli spazi privi di manufatti mostrano come non in tutte le grotte scelte siano state trovate tracce della presenza umana in ogni periodo.
Con un colpo d’occhio si può tuttavia cogliere, per quanto a grandi linee, l’evoluzione tecnologica e culturale degli uomini che hanno prodotto i manufatti qui esposti.
Sotto le vetrine, le grandi cassettiere, protette da vetro, permettono di avere una visione più ampia dei reperti rinvenuti e conservati finora nel deposito.

Sala 2 – Omaggio a Carlo Marchesetti

La seconda sala è dedicata all’Omaggio a Carlo Marchesetti, l’archeologo e direttore dei Musei Scientifici al quale si devono i primi scavi nelle grotte e sui castellieri. Egli scriveva: “… E si cominciò a frugare nel seno della terra, nei dorsi delle colline, ed anche per noi, sebbene bambina, incompleta, apparve la storia primitiva del nostro paese e noi vi potemmo leggere alcune pagine finora ignote, o solo vagamente accennate del nostro lontanissimo passato. Giorno per giorno si scoprono nuove reliquie dei nostri antichi progenitori e vanno diradandosi le fitte nebbie che ravvolgono il lontano passato della nostra patria”.
Carlo Marchesetti nacque il 17 gennaio 1850 a Trieste, principale porto dell’Impero austriaco, e vi morì il primo di aprile del 1926, quando la città era ormai parte del Regno d’Italia.
Benché le sue passioni fossero la botanica e la zoologia, nel 1874 si laureò a Vienna in medicina e fece il medico a Trieste per un solo anno. Nel 1876 infatti vinse il concorso per direttore del Museo di Storia Naturale, carica che ricoprì fino al 1921. Il suo interesse fu da allora concentrato sulla storia naturale, e in particolare sulla botanica, ma anche sull’archeologia preistorica, che andava affermandosi in quegli anni in tutta Europa: grazie alle sue indagini e agli scavi sul Carso divenne uno dei più rinomati paletnologi e paleontologi italiani.
Studioso dalla formazione d’impronta positivistica, condusse molteplici campagne di scavo con moderna sistematicità e cura per la documentazione dei dati e archiviazione dei reperti, prestando particolare attenzione alla contestualizzazione del dato archeologico e allo studio dell’ambiente antico.
I suoi preziosissimi manoscritti formano il Fondo Marchesetti-de Farolfi presso l’Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica.
In accordo con lo stesso Marchesetti, venne disposto che tutte le raccolte preistoriche da lui create e conservate dal Museo di Storia Naturale fossero trasferite nella nuova sede del Museo d’Antichità a San Giusto. Il passaggio avvenne tra 1925 e 1929. La sala Marchesetti fu inaugurata il 5 luglio 1932.
Il nuovo riallestimento distribuito su 9 sale del primo piano è ora volto a illustrare la vita di Carlo Marchesetti dedicata a “dissotterrare il passato” tra grotte e castellieri, senza trascurare di metterla a confronto con quanto scavato dai suoi contemporanei e dai moderni archeologi.

Sala 3 – La Grotta delle Mosche

La terza sala è dedicata alla Grotta delle Mosche / Mušja Jama, una cavità verticale carsica sotterranea, profonda circa 50 metri, del comprensorio di San Canziano del Carso / Škocjan. Lo scavo pionieristico, condotto da Josef Szombathy su incarico della Commissione Centrale di Preistoria di Vienna, ha restituito un eccezionale nucleo di materiali archeologici (più di 500 reperti, in parte conservati al Naturhistorisches Museum di Vienna e in parte, dal 1920, al Civico Museo di Trieste, come deposito dello Stato) in bronzo, soprattutto armi (punte di lancia, giavellotti, asce e spade, elmi e parti di corazze), intere o in frammenti, ma anche oggetti d’ornamento, attrezzi e prestigiosi manufatti quali tazze e calderoni utilizzati in cerimonie conviviali, risalenti alla tarda Età del Bronzo e alla prima Età del Ferro (XIII-VII sec. a.C.).
Tutti i materiali sono stati frantumati e intenzionalmente ripiegati e alterati con l’esposizione al fuoco. Poi sono stati lanciati nella voragine, dall’alto dell’imboccatura del pozzo carsico, precipitando sul cono detritico, formatosi proprio sotto l’imboccatura stessa.
Il ritrovamento e lo studio dei materiali (ai quali nel 2017 è stato dedicato un poderoso volume scientifico) permettono di ipotizzare, con una buona sicurezza, che la grotta fu sede di riti e culti espletati da personaggi ricchi e potenti: una sorta di santuario, in cui erano gettate le offerte dei guerrieri e dei capi delle antiche comunità locali.

Un prodotto multimediale, nelle prime due sale, oltre a presentare le grotte con video e descrizioni che “riportano” i reperti nei luoghi di ritrovamento, dà voce a Marchesetti con la lettura di brani scelti dai discorsi che egli preparava annualmente per presentare in chiave divulgativa i risultati delle sue ricerche. Ne traspare tutta la sua passione che ci guida alle scoperte e come egli diceva:
“Quale non fu però la mia sorpresa, allorché scavati appena pochi centimetri, mi si presentò …“ allora “si richiese al cavo delle grotte di rivelarci la loro storia remotissima, che gelosamente rinserrano in grembo. Pochi e scarsi, naturalmente, sono gli oggetti che finora vennero alla luce, e quindi ogni nuovo trovato, per quanto tenue, forma un’aggiunta non ispregevole alle nostre cognizioni paletnologiche”.
“Questi sono i documenti venerandi che noi dobbiamo trarre faticosamente dal grande archivio che è il grembo della terra, ove per millenni rimasero gelosamente custoditi, per ricostruire la storia perduta della nostra provincia”.

Nota: Il PALETNOLOGO studia le testimonianze e i manufatti dell’uomo preistorico, mentre il PALEONTOLOGO studia i resti fossili degli animali.

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